Il tempo come quarta dimensione

Il tema del tempo non è sconosciuto alla teologia di tradizione orientale ortodossa. Anzi, si può parlare di una sua concezione tipica, in quanto il concetto di tempo viene compreso alla luce dell’idea del progressivo movimento della storia verso la sua pienezza escatologica (divinizzazione) — e cioè verso la rivelazione di Cieli e Terra nuovi (il tempo dell’ottavo giorno di Gregorio Nisseno) –, una pienezza in qualche modo già anticipata e sperimentata nella celebrazione liturgica.

Tra gli esponenti di questa tradizione particolarmente attenti al tema del tempo, occorre nominare senz’altro Pavel A. Florenskij (1882-1937), fisico e matematico, filosofo e teologo, studioso di questioni scientifiche, di teoria dell’arte e filosofia del linguaggio, una delle figure più singolari del pensiero religioso russo dei primi decenni del XX secolo. Anche se Florenskij non dedicò a questo tema nessuna opera in particolare, esso viene richiamato nelle pagine di molti dei suoi scritti e affrontato in rapporto ad ambiti di studio spesso diversi: filosofia e teologia, gnoseologia e critica dell’arte, e così via.

A un primo contatto con gli scritti florenskijani potrebbe sembrare che la riflessione del nostro Autore riguardo al tema del tempo sia piuttosto frammentaria e incompleta. E ciò per il fatto che in essi si può rilevare la presenza di diversi approcci, ossia di diversi livelli di comprensione apparentemente non complementari. Il presente saggio si propone di dimostrare l’inconsistenza di una simile opinione mettendo in rilievo alcuni tratti originali dell’idea florenskijana di tempo. Essi sono legati alla sua concezione platonica della realtà (l’idea dei due mondi) e, soprattutto, alla convinzione che al centro delle questioni più fondamentali della filosofia e della teologia — e quindi anche di quella del tempo — sta la questione formulata già nell’antichità come il problema dell’«uno e molti», una questione che trova la sua soluzione definitiva solo se viene affrontata in chiave ontologico-trinitaria.

È da sottolineare soprattutto quest’ultima intuizione di Florenskij, in quanto essa, pur apparendo solo in pochi casi in maniera esplicita, rappresenta il filo rosso di tutta la sua opera. Per il nostro Autore, infatti, il dogma trinitario e la sua comprensione in chiave ontologica devono essere il punto di partenza e la norma che permettono non solo alla filosofia e alla teologia, ma anche alle discipline di scienza naturale di giungere a una concezione integrale del mondo e di sviluppare le loro teorie ed elaborare i loro concetti fondamentali — tra i quali non può mancare quello del tempo — in una chiave che metta in risalto la struttura e le dinamiche fondanti della realtà. Una tale convinzione scaturisce da un’altra: quella che in Dio-Trinità riconosce l’Origine di un «ordine metafisico» cui partecipa ogni esistenza creata.

Che il tempo rappresenti, assieme allo spazio, una dimensione costitutiva e perciò innegabile della realtà, è la tesi che Florenskij cerca di approfondire negli anni dell’insegnamento agli Ateliers superiori tecnico-artistici di Stato a Mosca. Una tesi per niente ovvia, in quanto — constata il nostro Autore ne L’analisi della spazialità e del tempo nelle opere di arte figurativa (1925-26) — nonostante il fatto che le nostre percezioni e valutazioni della realtà sono connesse con il tempo, tuttavia quasi a tutti sfugge quanto sia sostanziale questa connessione. Di solito non ci rappresentiamo il tempo sull’esempio delle altre tre coordinate spaziali della realtà (lunghezza, altezza, profondità). Esso, al contrario, viene considerato come una sorta di malinteso, e il tentativo di liberarsene come l’avvicinarsi a una conoscenza più esatta della realtà. Una tale idea, però, non è che il frutto di una consapevolezza che consiste nel voler reinterpretare i processi della nostra conoscenza come conoscenza divina. Infatti, sebbene nessuno si sogni di attribuirsi l’onnipresenza divina, e di conseguenza, l’onniscienza — vale a dire la possibilità di trattenere nel proprio intelletto tutta la realtà del mondo –, non di rado si accetta in modo semiconscio la premessa di carattere metafisico della propria conoscenza ritenendo, senza rendersene completamente conto, che i processi fisici che prendono parte alla conoscenza siano qualcosa di accettato per debolezza, come una stampella della conoscenza. Per Florenskij si tratta di una consapevolezza del tutto falsa, «in contraddizione con una concezione religiosa del mondo e insieme incompatibile con una testimonianza diretta della realtà». Falsa, perché dimentica che qualsiasi processo reale scorre nel tempo e ha la sua durata, sia essa grande o piccola — ciò non importa. Quel che importa è che essa esiste. Un oggetto di durata zero, di spessore nullo rispetto al tempo,

è un’astrazione e in nessun modo può essere considerato parte della realtà. Tanto più che un oggetto di questo genere, oltre all’impossibilità di essere effettivamente percepito nell’esperienza, non potrebbe essere pensato, perché i processi stessi del pensiero, del pensiero reale, avvengono nel corso del tempo e hanno essi stessi una loro durata e una certa sequenza dei loro elementi.

Uno degli esempi di concezione atemporale della realtà è il darwinismo, caratterizzato dal rifiuto del processo in quanto tale. Per esso la vita della specie, in se stessa, si presenta come assolutamente indipendente dal tempo e la specie come senza storia. Qualsiasi cambiamento avviene in forza di una spinta esterna, non collegata con la vita della specie e quindi causale.

Non c’è niente da dire sulla falsità di simili costruzioni — commenta il teologo russo –. Alla specie biologica è propria una storia, cioè una linea temporale, allo stesso modo in cui è propria a ciascun singolo membro della specie. Condizioni esterne possono causare la deformazione della linea temporale interiormente predestinata a una data specie e possono deviarla come devia il tronco di un albero se trova una roccia o il gambo di una pianta per la pressione di una pietra. Ma la legge di sviluppo, cioè la forma della linea temporale, ha la sua invariante, e la specie non la calpesta, e non può a essa rifiutarsi se non a prezzo della sua stessa fine. La legge del tempo non è propria soltanto ai fenomeni viventi, ma a tutto ciò che vi è al mondo.

Di conseguenza, sbaglia chi pensa che il tempo e lo spazio si possano staccare l’uno dall’altro, che essi si possano dare ognuno per conto proprio. «Il tempo e lo spazio non sono divisibili: non si può affermare che ci sia prima il tempo e poi lo spazio. Essi si danno sempre congiuntamente». Non è perciò possibile parlare astrattamente del tempo, come esistente in modo indipendente. Un tempo del genere non esiste, così come non esiste lo spazio separato dal tempo. «C’è una sola realtà, che è una realtà spazio-temporale, e non esistono due realtà, due mondi, temporale e spaziale».

In fondo è la stessa esperienza di vita a confermare, spesso in modo angoscioso per la fragile esistenza umana, queste affermazioni. Ogni vita umana, infatti, dà ragione al lamento «tutto passa, nulla rimane» di Eraclito, sperimentando che il tempo è la forma dell’esistenza di tutto ciò che è. Dire: «esisti» significa dire: «nel tempo».

Perché il tempo — scrive Florenskij ne La colonna e il fondamento della Verità (1914) — è la forma della transitorietàdei fenomeni. […] Tutto scivola dalla memoria, passa attraverso la memoria, si dimentica. Il tempo, chrónos, produce fenomeni, ma come Chrónos, il suo archetipo mitologico, divora i propri figli. L’essenza stessa della coscienza, della vita, di ogni realtà, sta nella transitorietà, cioè in una specie di dimenticanza metafisica.

Una transitorietà e dimenticanza che, da parte dell’uomo, vengono avvertite come un doloroso confronto con la sua fine sempre più prossima: la morte. La realtà di morte ricorda all’uomo il suo esistere nel tempo, così come la coscienza della temporalità della vita ricorda l’esistenza della morte. Florenskij a questo proposito scrive:

L’esistenza nel tempo è per natura sua un morire, un’avanzata lenta ma ineluttabile della morte. La vita nel tempo è un’inevitabile sottomissione alla rapace. Vivere e andar morendo è la stessa cosa, e la morte non è altro che un tempo diverso, più teso, più effettivo, che attira maggiormente l’attenzione su di sé. La morte è un tempo istantaneo, il tempo una morte prolungata.

Insomma:
La nascita e la morte sono i poli di un’unica realtà, chiamala vivere, chiamala morire, ma il nome più esatto è destino o tempo. Questo tempo uno, questo destino, consta a sua volta di nascita-morte unite polarmente, e così via fino agli ultimi elementi della vita, cioè ai minimi fenomeni di attività vitale

Ma che il tempo sia una vera e propria «quarta dimensione» o «coordinata» della realtà viene confermato anche da un altro fatto: solo prendendo in considerazione la dimensione del tempo l’uomo è capace di una visione più integrale della realtà. Perché una realtà è conoscibile nell’insieme della sua esistenza solo quando vengono prese in considerazione tutte le singole tappe della sua linea temporale di sviluppo.

Partendo da questa constatazione, Florenskij nota giustamente che l’uomo tende a conoscere e pensare un determinato oggetto guardando solo una sua parte, spesso quella che muta relativamente poco nel tempo, mentre trascura i settori di cambiamento sostanziale. Il che porta a identificare l’oggetto con lo stadio più significativo del suo processo, quello dominante su tutti gli altri che, nel linguaggio degli antichi, può essere chiamato akmé o entelécheia. Così, fin dai primordi dell’umanità, si usava riconoscere la pienezza umana di un individuo a quarant’anni, l’età in cui viene raggiunto il punto di massima armonia della personalità, l’espansione più completa delle sue possibilità. In questo senso si tratta di un’età che, pur essendo un determinato periodo, rappresenta l’intera sua vita. Anche nel mondo delle piante il fiore viene considerato il culmine di tutto lo sviluppo della pianta. Con chiarezza ancora maggiore quest’idea si manifesta nell’immagine quadrimensionale della farfalla con tutte le sue mutazioni. L’uovo, il baco, la larva e infine la farfalla, non sono quattro immagini diverse, ma una sola immagine con quattro linee temporali molto bizzarre. Comunque sia, Florenskij è convinto che una tale visione della realtà, pur essendo per certi versi lecita, non è sufficiente.

Ciò che si è detto della rosa vale per qualsiasi altro oggetto: «Un singolo momento strappato non ci mostra l’immagine intera di una cosa, come non ce la mostrano molti di questi momenti quando si prende ciascuno di essi singolarmente e non si coglie la forma del fenomeno secondo la quarta coordinata».

Proseguendo nella logica di questo ragionamento, il nostro Autore giunge a un’altra conclusione importante: ogni singola realtà ha una sua coordinata temporale in modo che il tempo è organizzato in essa come qualcosa che le è proprio, avendo in essa il suo principio e la sua fine.

Questo tempo non è un tempo esteriore, vale a dire un tempo delle cose senza vita privo di chiara individualità. E perciò il tempo di questa immagine non può essere giudicato in base ad altri tempi a esso estranei, e per avvicinarsi a esso con la sua misura è necessario o entrare nel tempo proprio dell’immagine data ed esaminarla come un’unità chiusa in sé, o invece elevare la nostra contemplazione sino all’immagine che unisce attraverso sé quell‘immagine e le altre dalle quali vorremmo partire. Allora questa nuova immagine in rapporto a quelle, particolari, sarà il loro spazio generale, con un suo tempo particolare, cioè lo spazio a quattro dimensioni, e queste immagini particolari, in rapporto all’immagine generale, saranno le cose che in essa si trovano, connesse fra loro da un’interazione di forze e di energie.